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Ma è nata prima la retorica o l’oratoria? E la dialettica? E poi, chi sono i più grandi comunicatori di tutti i tempi?

Oratoria e retorica sono termini che all’apparenza appaiono simili e che però, a un’attenta analisi, assumono un significato molto diverso, seppur di confine. Per definizione, s’intende per oratoria l'arte del parlare rivolgendosi a un pubblico su argomenti d'interesse collettivo. È una tecnica di comunicazione che presuppone l’utilizzo di altre tecniche contemporaneamente, come ad esempio l’intonazione della voce o la gestualità del corpo. Quando poi l'oratore si serve di accorgimenti stilistici non solo per amplificare le doti naturali dell’eloquenza di cui dispone, ma anche per dare maggiore enfasi al discorso parlato e soprattutto scritto, allo scopo di renderlo più efficace in relazione al fine per il quale si propone, ecco che si sconfina nella retorica. Vale a dire l’arte dello scrivere o del parlare, o anche dell'agire, improntato a una vana e artificiosa ricerca dell'effetto. L’oratoria, quindi, convince agendo sulla razionalità e la retorica persuade affascinando e facendo leva sulle emozioni, con l’unico scopo non di ricercare l’aletheia, la verità, ma l’eikós, il verosimile, ciò che è “possibile” nella maggior parte dei casi. Questo, la rende analoga alla «dialettica», definita come l'arte di argomentare con logica serrata, in modo particolarmente abile e persuasivo, col fine di determinare il contenuto concettuale della verità.

Le prime testimonianze dell’uso dell'arte oratoria, sono visibili sin dai poemi omerici,

XLVI. Igitur, ut Aratus ab Ioue incipiendum putat, ita nos rite coepturi ab Homero uidemur. Hic enim, quem ad modum ex Oceano dicit ipse amnium fontiumque cursus initium capere, omnibus eloquentiae partibus exemplum et ortum dedit. Hunc nemo in magnis rebus sublimitate, in paruis proprietate superauerit. Idem laetus ac pressus, iucundus et grauis, tum copia tum breuitate mirabilis, nec poetica modo sed oratoria uirtute eminentissimus. XLVII. Nam ut de laudibus exhortationibus consolationibus taceam, nonne uel nonus liber, quo missa ad Achillem legatio continetur, uel in primo inter duces illa contentio uel dictae in secundo sententiae omnis litium atque consiliorum explicant artes?

IX libro dell’Iliade gli ambasciatori di Agamennone cercano di convincere Achille a tornare a combattere... (Quintiliano Instit. Oratoria, X, I, 46)

ma il suo uso sistematico e consapevole si ebbe nell’Atene democratica del V secolo a.C. Nella polis, infatti, erano previsti importanti momenti di “partecipazione” (una parola che ci piace molto) popolare alla vita pubblica e, alle procedure di carattere coercitivo, si preferiva il libero potere persuasivo della parola, che diventava così un potentissimo strumento dell’intelletto democratico per affermare, per influenzare, per accusare o difendersi. Tutta questa ricchezza intellettuale fu codificata da Aristotele nella “Retorica”, che divenne il punto di riferimento essenziale per le diverse scuole dell'età ellenistica, influenzando tutti i retori delle epoche successive, passando per Cicerone e Quintiliano, fino ad arrivare al XIX secolo. Oggi le figure retoriche, favorite anche dal radicalizzarsi di una sempre più intuitiva e progredita tecnologia, sono entrate prepotentemente in ogni tipologia di comunicazione. Noi, in particolare, ne facciamo un grande uso, utilizzando molto spesso, considerandola una variante della metafora, la sinestesia o percezione simultanea, una "contaminazione" percettiva/sensoriale, che ci permette di associare, in una sorte di dolce stil novo, sguardi silenziosi” a illuminanti silenzi, in «chiare, fresche e dolci acque». Non trascuriamo però le tantissime altre figure: l’ironia, la litote, l’antitesi, e poi ancora l’antonomasia, l’eufemismo, l’iperbole, la metonimia, la perifrasi, la sineddoche, il chiasmo, il paradosso, lo zeugma, la metonimia e così via, ma concordiamo con Aristotele nel sostenere che la più grande forma retorica e di pensiero, la più pervasiva, rimane sempre la metafora.

La sfida importante adesso, è quella di imparare, nutrendosi del passato e della generosa e geniale illuminazione intellettuale giunta fino ai giorni nostri, cercando di codificare il canone classico della retorica, l’arte del ragionare, la “facoltà di scoprire in ogni argomento ciò che è in grado di persuadere”, interfacciandolo col mondo digitalizzato di oggi e con le sue convenzioni. La "Rhetorica ad Herennium", il più antico trattato latino di retorica, riprendendo le dottrine di Aristotele e Crisippo, distingue cinque fasi nella stesura di un'orazione: inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio. Noi ci proponiamo di rileggere questi momenti per indicizzarli secondo quelle che sono le nuove conoscenze e le nuove tecniche della comunicazione. Questo è quello che cerchiamo di fare.

Rispondere alla domanda iniziale, chi sono i più grandi comunicatori di tutti i tempi, adesso risulta semplice. Senza dubbio gli oratori e i retori dell'Antica Grecia, verso i quali, noi di iComunicando, sentiamo di avere un alto debito di riconoscenza, cioè aver tramandato al mondo anche quella che è conosciuta come la regola anglosassone delle 5 W. In questo senso, infatti, il retore Ermagora di Temno, secondo quanto riferisce il "De Rhetorica" parlò di sette «momenti», i loci argumentorum, strutturati in forma di domanda: quis, quid, quando, ubi, cur, quem ad modum, quibus adminiculis.

 

Baudelaire e Kandinskij dicevano di sé di voler «creare quadri che si potessero ascoltare e musiche che si 
potessero vedere».

 

“In verità, non c’è niente per me di più bello del potere con la parola dominare gli animi degli uomini, guadagnarsi le loro volontà, spingerli dove uno voglia, e da dove voglia distoglierli. Presso tutti i popoli liberi, e soprattutto negli Stati tranquilli e ordinati, quest’arte è sempre stata tenuta nel massimo onore e ha sempre dominato. Infatti, che cosa c’è di più meraviglioso del veder sorgere dall’infinita moltitudine degli uomini uno che da solo o con pochi possa fare quello che la natura ha concesso a tutti? O di più piacevole a conoscere e sentire di un discorso abbellito e adorno di saggi pensieri ed elevate espressioni? Che cosa è così imponente e sublime quanto il fatto che le passioni del popolo, i sentimenti dei giudici, l’austerità del Senato siano modificati dal discorso di un solo uomo? Che cosa inoltre è così splendido, così nobile, così liberale quanto il portare aiuto ai supplici, sollevare gli afflitti, dare salvezza agli uomini, liberarli dai pericoli, salvarli dall’esilio? Che cosa è così necessario quanto l’avere sempre pronta un’arma con cui tu possa e difendere te stesso e attaccare gli altri senza tuo danno e vendicarti se provocato? Orbene per non parlare sempre di foro, tribunali, rostri e Senato, che cosa ci può essere, per chi è libero da impegni, di più piacevole e di più degno di una persona colta, di un discorso arguto e bene informato su qualsiasi argomento? Noi ci distinguiamo dalle fiere soprattutto per questo, perché sappiamo conversare ed esprimere con la parola i nostri pensieri. Perciò chi non ammirerebbe e, a ragione, quest’arte, e non riterrebbe suo dovere studiarla con tutte le sue forze, onde superare gli stessi uomini in ciò in cui gli uomini si distinguono massimamente dalle bestie? Ed ora passiamo al punto più importante della questione: quale altra forza poté raccogliere in un unico luogo gli uomini dispersi, o portarli da una vita rozza e selvatica a questo grado di civiltà, o, dopo che furono fondati gli Stati, stabilire le leggi, i tribunali, il diritto? Non voglio passare in rassegna tutti gli altri vantaggi che sono quasi infiniti. Per questo condenserò in poche parole il mio pensiero: io affermo che dalla saggia direzione di un perfetto oratore dipendono non solo il buon nome dell’oratore stesso, ma anche la salvezza di moltissimi cittadini e dell’intera Nazione. Perciò continuate, o giovani, la strada intrapresa e attendete con impegno ai vostri studi, affinché possiate essere di onore a voi stessi, di utilità agli amici e di giovamento allo Stato.”

Cicerone. De oratore, I, 30-34

“L’arte del dire non ha modo di rifulgere se l’oratore non ha studiato profondamente i problemi che dovrà trattare. Una caratteristica di coloro che parlano bene è certamente questa: uno stile armonioso e forbito, che si distingue per la sua elegante fattura. Ma un tale stile, se non poggia sopra un argomento perfettamente conosciuto dall’oratore, inevitabilmente o non ha alcuna consistenza o è deriso da tutti. Quale stoltezza può eguagliare un vuoto fragore di parole, perfino le più scelte ed eleganti, che non siano sostenute da un pensiero e dalla perfetta conoscenza dell’argomento? Pertanto qualunque sia l’argomento, a qualunque arte o disciplina appartenga, purché l’abbia bene studiato, come fa per la causa del cliente, l’oratore lo esporrà con maggiore competenza ed eleganza dello stesso inventore e provetto intenditore. E se qualcuno sostiene che vi sono determinati argomenti e problemi propri degli oratori e una speciale scienza limitata ai tribunali, io ammetterò che il nostro genere di eloquenza si interessa con maggior frequenza di questi problemi; tuttavia in questo ristretto spazio ci sono moltissime nozioni, che non vengono insegnate e che non sono neanche conosciute dai cosiddetti retori.”

Cicerone. De oratore, I, 48; 50-54
 

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